G20 ed il flop della Tassa minima globale
La riforma della tassazione internazionale parte da Venezia, ove si è tenuto l’incontro del G20, arrivando all’ultimo passaggio politico, con un esito ormai scontato dopo l’accordo raggiunto il 1° luglio tra 130 Paesi in sede Ocse.
Al termine, di un lungo e accidentato percorso, il G20 a presidenza italiana, che si è tenuto nei giorni scorsi a Venezia. ha dato la luce verde alle regole che, almeno nelle intenzioni, dovrebbero fermare la corsa a paradisi fiscali e giurisdizioni “benevole”
L’accordo sottoscritto da 130 nazioni OCSE mira a limitare le possibilità delle multinazionali di re-localizzare i profitti nei paesi a bassa tassazione.
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Da notare come già in ambito Europeo vi siano tre nazioni contrarie all’istituzione di una tassa minima globale: Irlanda, Estonia, Ungheria (Cipro non ha partecipato alle trattative). Gli altri contrari sono Perù, Barbados, Saint Vincent and Grenadines, Sri Lanka, Nigeria e Kenya.
Si è tanto dibattuto sulla rete e sui Social di questo provvedimento, ma nello specifico cosa prevede la tassa minima globale approvata nel G20? E poi le stesse regole valgono veramente per tutti ?
Nutro sinceramente qualche dubbio e adesso ti spiego perchè.
Cominciamo che a mio avviso definire “storico” un accordo internazionale in materia di fisco che introduce un’aliquota del 15%, in pratica poco più di quanto previsto nei paradisi fiscali mascherati, è davvero troppo. Ho come la sensazione che stiano facendo passare una vittoria solo politico/simbolica per una vittoria storica.
Infatti, ad esempio, il governo inglese ha ottenuto di esentare “il perimetro” della City, e quindi le banche internazionali che lì hanno sede e le molte che vi si trasferiranno, dal nuovo regime fiscale.
A ciò bisogna aggiungere che la soglia del 10% del margine operativo, indicato come parametro di riferimento, finisce per escludere dall’imposizione colossi come Amazon che hanno margini bassi a causa degli alti costi ma guadagnano miliardi grazie al gigantesco volume di vendite. In tal senso, i giganti finiranno per essere ancora più premiati e la spinta verso le grandi dimensioni produttive, magari a discapito della qualità del lavoro, risulterà ancora più affannosa. Per “fare la storia” sarebbero stati necessari esiti assai diversi, come del resto dimostrano ulteriori limiti della nuova tassa minima globale.
Analizzando la proposta attuale, notiamo come la stessa sia formata da due pilastri.
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Il primo riguarda una aliquota minima del 15% a carico di tutte le multinazionali con ricavi superiori ai 750 milioni di euro. In sostanza se ad esempio la tech company con sede in US, dichiara di essere fiscalmente residente in una nazione che impone il 5% di tasse, il 10% di differenza (15-5) lo verserà negli States ove ha la sede.
Il secondo riguarda le multinazionali con ricavi di oltre 20 miliardi di dollari ed un margine operativo superiore al 10%. Secondo quanto previsto una parte del margine eccedente il 10% dovrà essere tassata nei Paesi in cui l’azienda realizza le vendite.
E quindi, tu che leggi, ti devi preoccupare?
Decisamente no, o perlomeno sarei lusingato se il CEO di una delle 100 multinazionali di Forbes fosse un lettore di questo blog, ma dato che ritengo questa condizione altamente imbrobabile, penso che nè tu e nè io siamo assolutamente interessati a questa decisione, nonostante i rullio di tamburi che l’accompagna.
Se non è preoccupata Amazon, penso che i miei Clienti possano dormire sogni tranquilli.
Ma tornando alle cose di casa nostra, dove per casa nostra intendo l’Unione Europea, come scrivevo prima sono stati ben tre gli Stati che si sono dichiarati contrari persino ad un’aliquota del 15%. Si tratta dell’Ungheria di Viktor Orbán, dove l’aliquota della corporate tax è al 9%, dell’Irlanda, dove si paga il 12,5% sulla carta, perché poi di fatto l’aliquota reale è decisamente più bassa, e dell’Estonia che non tassa gli utili reinvestiti.
È altresì evidente un altro limite di natura generale. La proposta, proveniente dall’amministrazione Biden, prevede che la tassa sia applicata soltanto a corporation con almeno 20 miliardi di dollari di fatturato, in pratica solo un’ottantina di società, contro l’ipotesi originaria dell’Ocse di almeno 2.300 realtà societarie. Non bastasse tutto questo, sono escluse “per genere” da entrambi i “‘pilastri” le banche, le società di estrazione di materie prime e quelle di international shipping, cioè di trasporto aereo e via mare.
Quindi possiamo considerare finiti i cosidetti Paradisi Fiscali ?
No, assolutamente. Perchè a dispetto delle poche aziende che rientreranno all’interna della soglia dei ” due pilastri”, vi sono altre migliaia, milioni, di aziende sotto-soglia che potranno tranquillamente continuare a sfruttare i paradisi fiscali, alleggerendo legalmente il carico fiscale.
Inoltre vale sempre il detto “fatta la legge, trovato l’inganno”. Con molta probabilità una volta definita precisamente la normativa, le nazioni penalizzate troveranno il modo di aggirare il problema ad esempio utilizzando crediti d’imposta o rimborsi ( vedi Malta ).
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Per concludere, ho la vaga sensazione che dietro i proclami – politici – del G20, con i quali si inneggia all’equità fiscale, si possa nascondere un vero e proprio sistema di controllo politico/economico sugli Stati più piccoli a forza di black list e sanzioni di vario tipo.
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